My poems …. Life and beauty .. sorrow and wisdom .. love and adventures … people , places and memories … Taher

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Monday, April 7, 2008 | Dr. TAHER ALWAN

Ancora l'anno zero

scritto per noi da Ilaria Addeo

Taher Alwan, intellettuale iracheno, racconta il suo ritorno in Iraq nel 2003''Ho vissuto fuori per diversi anni perché contrario alla leadership di Saddam Hussein, lavorando in diversi paesi e collaborando con Amnesty International. Sono tornato in Iraq nel 2003, poco dopo l’inizio dell’invasione statunitense, carico di grandi speranze e convinto che il paese sarebbe riuscito a ricostruire una nuova vita e un nuovo governo”.Comincia così il racconto della propria storia Taher Alwan, durante una serata di dibattito, lettura di poesie ed esposizione fotografica sull'Iraq a Passaporta, una libreria fiamminga nel centro di Bruxelles, il 19 marzo scorso, organizzata in occasione del quinto anniversario dell’invasione dell’Iraq con alcuni artisti iracheni rifugiati in Belgio. Tra questi Alwan, scrittore, giornalista e produttore cinematografico, che nelle sue poesie e nei suoi film cerca di raccontare la vita quotidiana degli iracheni di oggi, di coloro che vivono e lavorano tra le mille difficoltà di un paese completamente distrutto in seguito all’invasione del 2003.Fuggito per la prima volta dall'Iraq nel 1996, perché nella lista nera dei perseguitati da Saddam Hussein, in quanto giornalista, professore e film-producer, è ritornato nel proprio paese dopo l'inizio della guerra e ha ricominciato la sua attività di giornalista e professore di Cinematografia all’Istituto di Belle Arti dell’Università di Baghdad.''Quando sono tornato in Iraq il paese era distrutto, senza elettricità, senza polizia a garantire la sicurezza dei cittadini, ma per la gente era ancora normale vivere tutti insieme, sciiti, sunniti e cristiani. Quello che mostrano ora i media non esisteva nel 2003 e 2004. Già prima di lasciare l’Iraq insegnavo all’Università all’Istituto di Belle Arti e mi sono sempre occupato di cinema. Quando sono tornato ho fondato una Ong, specializzata in cinematografia che cerca di produrre film documentari sui diritti umani. Insieme ad alcuni amici e colleghi con cui collaboravo già precedentemente abbiamo inoltre aperto l’ufficio regionale del nostro giornale, di cui non era consentita la circolazione durante il regime di Saddam. Nel 2003 abbiamo quindi creato un ufficio regionale anche a Baghdad e nello stesso tempo fui nominato Direttore del Dipartimento di cultura. Il nostro intento era quello di dare grande spazio alla cultura e alla produzione artistica di giovani registi e produttori iracheni. Dalla stessa Ong è nata quindi l’idea di dar vita ad una manifestazione cinematografica internazionale e così nel 2005 abbiamo realizzato la prima edizione dell’International Baghdad Film Festival, prima manifestazione cinematografica in piena guerra, che ha riscosso un grande successo sia nel paese che all’estero''.Il successo, però, ha portato il riconoscimento pubblico, e attirato l'attenzione delle milizie del paese. Minacciato varie volte e costretto a cambiare casa diverse volte ha deciso infine di lasciare la sua famiglia, i suoi libri e tutte le sue cose e di fuggire in Belgio, dove vive da ottobre 2006.''Tra il 2005 e il 2006 la situazione è diventata molto pericolosa, soprattutto dopo il febbraio 2006 a causa del peggioramento degli scontri tra Sunniti e sciiti. Dopo il successo del Festival e per la mia attività sia di giornalista sia di direttore del Dipartimento di cultura ero molto conosciuto nel Paese per cui era difficile riuscire a sottrarmi alle varie occasioni di visibilità in pubblico, sui giornali e in televisione. Non potevo scomparire, ma tutto questo non mi permetteva di vivere in tranquillità. Nello stesso periodo insegnavo all’Università di Baghdad al Dipartimento di Cinematografia. I partiti radicali e i miliziani avevano diverse ragioni per perseguitarmi, come professore, come giornalista e come film-maker. Per cui mi decisi a lasciare di nuovo l’Iraq''.Una volta lasciato il paese come ha continuato a lavorare ai progetti della sua Ong e del Festival?Non è stato molto difficile. Inoltre negli anni in cui sono stato in Iraq eravamo riusciti a mettere su un ufficio stabile e cominciato a realizzare alcuni documentari, tra i quali uno dedicato ai ragazzi che hanno abbandonato prematuramente la scuola, grazie alla collaborazione dell’Ufficio di cooperazione svizzero in Iraq. Stando all’estero riesco a presentare lavori sull’Iraq che vanno a sostenere i progetti in loco e che mostrano la realtà irachena di oggi. Abbiamo organizzato alcune mostre fotografiche sull’Iraq, mostrando alla gente la vita reale nell’Iraq di oggi. Cerchiamo di realizzare mostre con foto diverse da quelle che di solito mostra la stampa, in quanto non mettono in evidenza il sangue, i morti, le vittime della guerra, ma la vita comune della gente irachena, come si muove, come lavora, i bambini che vanno a scuola, le donne nelle proprie case.Quali sono le maggiori difficoltà che incontrano la sua organizzazione e i suoi colleghi nello svolgere le proprie attività nel paese?Molte organizzazioni cercano di fare tanto, ma c’è molta corruzione, per cui le organizzazioni non si fidano e non hanno la certezza che gli aiuti raggiungano la popolazione. Tuttavia non è impossibile. Anche la nostra organizzazione ha avuto molti problemi nell’operare nel paese, non avevamo una sede né fondi finché non abbiamo avuto il supporto dell’Istituto di Cultura francese che ci ha aiutato a realizzare il Festival cinematografico, altrimenti non avremmo avuto alcun contributo finanziario né dal governo né da qualsiasi altro. Le difficoltà maggiori vengono dalla dilagante corruzione che esiste nel paese e dai pochi fondi destinati alle iniziative culturali. Da questo punto di vista la situazione non è migliorata con la caduta di Saddam. Cinema e teatri sono stati distrutti, i musei, tutte le istituzioni culturali sono state distrutte e non è stato fatto nulla perché fossero ricostruite. È difficile realizzare delle attività culturali anche adesso. Prima dell’invasione dell’Iraq venivano trasmessi spettacoli al cinema fino a mezzanotte, ora invece tutte le attività culturali devono terminare prima del tramonto e la gente non può uscire, c’è il coprifuoco, è difficile lavorare in questa situazione. Sarebbe invece importante sostenere le Ong che lavorano nel paese a portare avanti progetti nel campo dei diritti umani e della cultura. Se questi programmi venissero sostenuti le attività culturali potrebbero avere un ruolo molto efficace nel processo di ricostruzione del paese.Lei ha conosciuto e vissuto l’Iraq del post-Saddam ed ha comunque deciso di lasciare il paese per le difficoltà enormi in cui era costretto a lavorare. Quali sono dunque le sue speranze e come immagina il futuro dell’Iraq?Quando sono tornato in Iraq nel 2003, dopo aver vissuto per molti anni fuori dal paese, rimasi molto turbato dalla situazione di totale distruzione, dalla mancanza di qualsiasi tipo di controllo, ma riservavo dentro di me una grande speranza. L’Iraq è un paese molto ricco. Stando nel paese ho sperimentato quanto fosse difficile e pericoloso per un giornalista lavorare a Baghdad. In Iraq non c’è sicurezza. È difficile poter svolgere il proprio lavoro in una situazione del genere, specialmente per un giornalista e quando scrivi un articolo, pur se in modo indipendente, non sai mai quali critiche, accuse o apprezzamenti puoi attirarti. In Iraq si rischia la vita per questo. Il nostro giornale è sempre stato molto indipendente e laico, e molto critico nei confronti della religione islamica e della politica irachena, tuttavia siamo stati accusati di favorire il partito Ba’th, il che è ridicolo.Riguardo al futuro dell’Iraq, non mi sento di essere molto ottimista, ma non è impossibile per l’Iraq ricostruire una nuova vita. In questo momento, però, la situazione è molto complicata con il grande numero di morti ogni giorno, le milizie che continuano ad uccidere le donne per ragioni sociali, per futili motivi legati alla religione, perché non indossano il velo, o hanno un ragazzo.Cosa pensa della presenza straniera in Iraq, ritiene che sia necessaria finché non si stabilizzi la situazione oppure sarebbe meglio lasciare che gli Iracheni ricostruiscano da soli il proprio paese?Ritengo che ci sia stato un grosso errore da parte degli Stati Uniti e del governo iracheno nell’affrontare i vari problemi connessi alla caduta di Saddam in Iraq. Non si può pensare che un paese vissuto per 35 anni sotto dittatura riesca da un giorno all’altro ad organizzarsi e a stabilire un regime democratico. Bisognava preparare la popolazione in modo graduale. Inoltre affinché ci sia un governo stabile e democratico è necessario fornire alla popolazione i beni primari, elettricità, acqua, ricostruire ospedali, scuole, strade, assicurare un sistema di sicurezza e di garanzia dei diritti umani e delle libertà di espressione. Come dicevo prima, le forze occupanti dovrebbero inoltre sostenere la classe intellettuale, invece non esiste alcun tipo di protezione per i giornalisti, i professori, gli intellettuali. Ero professore di Sociologia cinematografica all’Università ed è impensabile che potessi tenere delle lezioni ed esimermi dal fare critiche o osservazioni sulla situazione dei diritti umani perché in classe avevo figli di miliziani che poi mi minacciavano di morte per quello che dicevo.La violenza settaria sempre più dilagante incoraggia molti intellettuali a lasciare il paese e cercare asilo all’estero. Fortunatamente molti, come Taher Alwan, scelgono di comunicare e far conoscere la realtà del proprio paese, non solo quella sanguinosa, ma anche la vita quotidiana della gente che continua a vivere e a lottare per un futuro in Iraq.

http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=10592

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